Unctad: cambiare paradigma della globalizzazione, aumentare i salari dei poveri per “dopare” la crescita mondiale
26 ottobre 2010 alle ore 13.45
E’ “stranamente” passato quasi sotto silenzio in Occidente il rapporto dell’United Nation Conference on Trade and Development (Unctad) pubblicato il 19 ottobre 2010. Mette in discussione l’attuale paradigma economico della globalizzazione che basa la competitività di un Paese sulle esportazioni e la produttività (che si traducono in bassi salari). Infatti secondo l’Unctad “L’aumento dei salari sarebbe in grado di dinamicizzare la crescita mondiale”.
Il rapporto Unctad 2010 sul commercio e lo sviluppo sottolinea che «Quest’aumento passa però per un riorientamento delle politiche macroeconomiche ed un rafforzamento delle istituzioni che permetteranno di far aumentare i redditi».
Secondo il documento al centro del nuovo paradigma deve esserci la creazione di nuovi posti di lavoro: «E questo è ancora più importante perché, in numerosi Paesi, la crisi finanziaria ed economica ha provocato un aumento della disoccupazione che raggiunge livelli ineguali».
Ma gli economisti che l’Unctad ha chiamato a stilare il documento sfatano un’altro tabù economico che sentiamo ripetere come un mantra anche dagli imprenditori e dai politici italiani: «Le prospettive di una crescita trainata dalle esportazioni diminuiscono, perché gli Stati Uniti non saranno più il principale mercato di esportazioni e ci sono poche possibilità che le altre potenze economiche prendano rapidamente il loro posto». Ma il coltello nella piaga della politica economica tradizionale (sia capitalista che del socialismo reale) il rapporto dell’Unctad lo mette quando dice: «Nelle strategie di sviluppo che hanno dominato gli ultimi 30 anni limitare la pressione salariale è stato il principale modo di procurare un vantaggio concorrenziale nei differenti settori dell’esportazione sui mercati internazionali. Questo approccio dimentica il ruolo macroeconomico del rialzo dei salari che possono stimolare la domanda interna e dinamizzare il lavoro».
Come se ne esce da questo gatto che si morde la coda (ci vogliono più consumi ma la base dei consumatori guadagna poco per sostenere il mercato o sono disoccupati)? Lo spiega nell’introduzione del rapporto il segretario generale dell’Unctad, Supachai Panitchpakdi:«Una strategia promettente per creare rapidamente dei posti di lavoro potrebbe consistere nel privilegiare maggiormente la dinamica degli investimenti e fare in modo che i guadagni di produttività così ottenuti vengano ripartiti tra il lavoro e il capitale in maniera da “dopare” la domanda interna, Tutte questi misure applicate insieme, offrirebbero grandi possibilità di gestire la domanda facendo in modo di combattere la disoccupazione, gestendo intanto l’inflazione e riducendo la dipendenza di fronte alle esportazioni».
Sembrerebbe che il turbo-capitalismo globalizzato abbia bisogno di una specie di droga socialdemocratica che per alcuni versi somiglia al riassestamento che sta mettendo in atto il Partito comunista cinese in Cina con il nuovo piano quinquennale. Ma sembra una ricetta per i Paesi emergenti e in via di sviluppo più che per il satollo Occidente dove sembra problematico garantire l’espansione regolare della domanda interna. Sembra invece destinata anche a noi un’altra delle raccomandazioni: «Rafforzare il potere d’acquisto collettivo, stimolando gli investimenti in capitale fisso e nell’innovazione tecnologica».
Infatti il rapporto fa il bilancio di 30 anni di globalizzazione e sviluppo partendo dal vero teatro nel quale si è svolta la battaglia economica e sociale planetaria:: i mercati del lavorio dei Paesi in via di sviluppo e le loro risorse. Paesi che non sono in grado di assorbire un eccesso di manodopera eppure sempre più dipendenti dalle esportazioni verso i Paesi sviluppati. «Ma tutto questo non può proseguire allo stesso tempo con le strategie di sviluppo e riuscire – dice l’Unctad – Bisogna quindi concentrarsi maggiormente sulle forze interne che sono la crescita e la creazione di posti di lavoro».
Infatti, se il rapporto Unctad è stato praticamente ignorato in Europa (per non parlare dell’Italia), sta invece facendo molto discutere in Africa, c visto che è in quel continente che ci sono i più poveri dei Paesi in via di sviluppo e dove i programmi pubblici per il lavoro sarebbero più utili per lottare contro disoccupazione e miseria. Programmi che secondo il rapporto «Non solo hanno un effetto diretto sulla riduzione della disooccupazione, ma creano potere di acquisto che avrà degli effetti indiretti sui posti di lavoro in tutta l’economia e fissano una soglia di remunerazione e condizioni di lavoro minime».
Dopo una contrazione di circa il 2% nel 2009 (la prima dalla seconda guerra mondiale) il Pil mondiale dovrebbe crescere del 3,5% nel 2010, ma nello stesso tempo il valore del commercio mondiale è precipitato del 23% nel primo trimestre del 2009, iniziando a riprendersi d solo alla fine dell’anno. Ma mentre i prezzi dei prodotti di base aumentano velocemente rispetto al primo trimestre del 2009 non fanno altrettanto le entrate fiscali degli Stati, in parte a causa della forte domanda dei Paesi emergenti in rapida industrializzazione, ma anche per il riapparire della speculazione finanziaria nelle sue forme peggiori.
«La ripresa è fragile ed ineguale – avverte l’Unctad – I Paesi africani, meno direttamente toccati dalla tormenta finanziaria perché sono molto meno integrati di altre regioni in via di sviluppo nei mercati finanziari internazionali, dovrebbero conoscere una crescita del 5% nel 2010. In Africa sub sahariana (non compreso il Sudafrica) la crescita sarà più vicina al 6%. Ma la creazione di posti di lavoro e particolarmente di impieghi ad alta produttività e ben remunerati resta difficile».
Le decantate riforme politiche liberiste applicate per più di 20 anni hanno prodotto risultati limitati: «Molti Paesi africani negli anni ’80 e ’90 hanno registrato una contrazione del Pil per abitante e delle attività manifatturiere – spiega l’Unctad – Alla fine degli anni ’90, la struttura produttiva ricordava quella del periodo coloniale, con un posto preponderante dell’agricoltura e delle attività estrattive».
Questo ha prodotto l’ampliamento del debito, l’aumento del costo del cibo e una serie di conflitti interni, solo la fine di queste turbolenze a permesso il recupero del trend della crescita e l’aumento delle entrate a partire dal 2003, crescita che è proseguita negli anni successivi nonostante la crisi mondiale. «Ma niente indica fino ad ora che la struttura del lavoro sia realmente evoluta – sostiene il rapporto – Il tasso di impiego ufficiale resta elevato nell’Africa subsahariana, il che conferma che il problema in termini assoluti non riguarda una penuria di posti di lavoro, ma l’assenza di posti di lavoro accettabili e produttivi».
Il lavoro agricolo, essenzialmente informale, è diminuito con il progredire dell’urbanizzazione, ma in Africa rappresenta ancora il 60% del totale. Intanto aumenta il lavoro nero e informale nei servizi urbani e nel piccolo commercio. Nell’Africa sub sahariana, se si esclude il Sudafrica i salariati in settori “strutturati” sono solo il 13% dei lavoratori e il 60% della forza lavoro sono “lavoratori poveri”, cioè che b non riescono con il loro salario a soddisfare i bisogni primari di sussistenza delle loro famiglie. L’Unctad conclude: «Perché la situazione del lavoro possa migliorare grazie ad una crescita più rapida del Pil, bisogna quindi che l’aumento dei redditi nelle industrie dell’esportazione abbia delle ricadute benefiche per iol resto dell’economia. Ma questo poi dipenderà dalla domanda produttiva delle imprese, dalla crescita dei consumi di beni e prodotti nel Paese e dall’aumento delle spese pubbliche grazie alle tasse più elevate pagate dagli esportatori».
Peccato che fino ad ora la globalizzazione imprenditoriale guidata dalle multinazionali si sia basata proprio sul sogno di trovare sempre un Paese dove si pagano meno gli operai e non si pagano tasse. Forse siamo arrivati alla fine della corsa e tutte le caselle della scacchiera sono state percorse e occupate e bisognerà pensare alla redistribuzione e del benessere globale. E per l’occidente saranno dolori.
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